Diagnosi: sentenza, liberazione o meglio non sapere?

Uno dei momenti più delicati all’interno di una relazione di cura (fisica e/o psichica), è quello della diagnosi.
Il paziente reagisce ad essa inquadrandola principalmente in due modi: una sentenza o una liberazione.
Per molte persone può essere un vero e proprio pugno nello stomaco, uno shock capace di dar vita a una moltitudine di emozioni, come paura, incredulità, rabbia, ansia, frustrazione, sensazione di impotenza e smarrimento, e talvolta ritiro sociale o ricerca compulsiva degli altri.
È come se si verificasse un punto di rottura col passato (“ero così, ma adesso non sarò più come prima, tutto cambierà”).
Allo stesso tempo, rappresenta un’occasione per riconfigurare le proprie priorità circa il presente ed il futuro.
Per altre, invece, ricevere una diagnosi è un momento rigenerante o di riscatto per non essere state credute. Quante volte, infatti, ci si sente sollevati nel poter dare un nome a qualcosa che ci riguarda e che finalmente possiamo definire, controllare, curare/guarire?
Un altro scenario possibile è quello del “meglio non sapere”. Ed ecco che evitiamo di far visite specialistiche o indagini diagnostiche, ma non tanto perché quello che potremmo scoprire ci spaventa, bensì per i cambiamenti a cascata che ne deriverebbero.
Ricevere una diagnosi, dunque, in un modo o nell’altro, può cambiare la nostra routine, la nostra vita per come la svolgiamo abitualmente, metterci in discussione, darci un ruolo “scomodo”, o comunque diverso, che non sempre siamo pronti ad assumere.
O, al contrario, ci dà la possibilità di essere riconosciuti nella nostra sofferenza, di far comprendere a chi ci sta intorno che la nostra quotidianità è piena di problemi, e che forse una pacca sulla spalla, un aiuto pratico o un po’ di compagnia, ci darebbe un gran sostegno.
Non esiste un modo più giusto di un altro di reagire ad una diagnosi. È qualcosa di estremamente personale e soggettivo, e dipende da numerosi fattori, ad esempio:
- lo stato psicofisico generale
- la nostra impalcatura (resilienza),
- la nostra storia (compresa quella dei nostri familiari o amici),
- le esperienze pregresse circa i problemi di salute,
- le informazioni possedute,
- le credenze o fantasie al riguardo,
- il periodo di vita specifico in cui arriva la diagnosi,
- il modo in cui ci viene comunicata dal professionista,
- il supporto (reale o percepito) dei nostri cari,
- tratti o caratteristiche personali (ottimismo vs pessimismo, locus of control interno vs esterno, Self-Efficacy).
Un invito che può risultare utile, oltre a quello di rivolgersi ai professionisti, è di incorniciare la diagnosi non tanto come qualcosa di statico, immutabile e definitivo (come una fotografia), ma un fenomeno in divenire (come un video).
Ma soprattutto sarebbe auspicabile non vedersi come semplici possessori di un’etichetta diagnostica (paziente passivo), bensì come parte dinamica ed auto-efficace del processo di cura (paziente attivo).
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